XVII.

Torquato Tasso

1. La vita

La vita di questo grande poeta – di cui, specie nel periodo romantico, si accentuarono fino all’esasperazione e alla leggenda i caratteri di infelicità senza spiragli di luce, di vittima di una specie di congiura di eventi particolari, di nemici potenti e accaniti, di una sorte implacabilmente avversa (e il grande Leopardi vide in lui come un precursore della sua esperienza vitale e storica e del suo pessimismo totale) – si svolse effettivamente, pur con graduazioni e periodi diversi, sotto il segno di una condizione di crisi, di squilibrio, di contrasto drammatico che si precisa volta a volta nei casi di particolari sventure e di particolari atteggiamenti personali di esaltata considerazione negativa della sua situazione (fino ai confini di un vero complesso di spirito di persecuzione e di turbamento psichico), ma che profondamente deriva dalla sofferenza personale di un’epoca storica complicata e difficile: il tramonto dell’epoca rinascimentale ai cui ideali di armonia e sin di edonismo il Tasso ancora è legato – forzandoli sino ai margini di una beata e illimitata libertà del piacere e della voluttà – e l’insorgere di un nuovo tempo dominato da nuove prospettive religiose e morali, da un clima insieme fastoso e tetro, rigido, conformistico e solenne su cui gravano le direttive della controriforma e del concilio di Trento e di una letteratura presa fra la rigidezza delle regole e la ricerca di una novità piú varia e ambiziosa, fra il classicismo aristotelico e la sontuosa ambizione di una nuova epica cavalleresca ed eroico-militaresca favorita dalla politica sempre piú autocratica degli stati di fine secolo e da una società che tende ad una specie di ritorno a condizioni assolutistiche e feudali.

Su questa crisi di fondo si impianta la stessa vicenda biografica del Tasso che si apre – dopo la nascita a Sorrento l’11 marzo 1544 da Bernardo, bergamasco e autore dell’Amadigi, e da Porzia de’ Rossi – con una prima vicenda infelice che costituí come un trauma profondo nell’infanzia e nell’adolescenza del poeta: quando il padre, fedele cortigiano del principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, seguí, nel ’52, il suo signore esiliato come ribelle dal reame di Napoli e la madre morí lontano da lui nel 1556.

Tuttavia gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza – passati ad Urbino, con il padre, alla corte dei Della Rovere, e poi a Venezia, Padova e Bologna – furono anni fervidi di studio e di intensa vita di relazione con studiosi e signori, di amori (per Lucrezia Bendidio e per Laura Peperara), ed essi offrirono al giovane la possibilità di formarsi una solida cultura filosofica e letteraria e di avviare, con fortunato successo, la sua attività di scrittore con le sue liriche amorose e il primo poema, del ’62, il Rinaldo. Cosí – già precocemente celebre e munito delle qualità piú adatte ad una vita cortigiana raffinata ed elegante – il Tasso poté entrare nel ’65 al servizio del cardinale Luigi d’Este, fratello del duca regnante Alfonso II, in quella corte di Ferrara che rimaneva ancora una delle corti italiane piú ricche di cultura, di letteratura, di agi signorili e di vita artistica: egli trascorse un lungo periodo felice, ammirato come poeta e come cavaliere, caro alle principesse estensi cui rivolse versi di omaggio amoroso, amato dal suo primo signore e dallo stesso duca al cui diretto servizio passò nel ’72 in una condizione di libertà e di decoro ben diversa da quella in cui si era trovato a suo tempo l’Ariosto.

Nacquero allora le sue opere maggiori, Aminta e Gerusalemme liberata, frutto di una vita incoraggiata da successi e dalla stima di signori e letterati e piú facilmente consonante con le condizioni di tardo ma persistente Rinascimento ancora dominante nella corte estense.

Ma già nel ’75, compiuta la prima redazione della Liberata, la condizione del Tasso venne progressivamente come incrinata dal contemporaneo insorgere in lui di quella crisi personale e storica che fermentava sotto le apparenze di una vita facile e fortunata e sotto le condizioni floride e instabili di questo autunno e crepuscolo del Rinascimento.

Mentre lo sforzo della composizione del poema intaccava la fragile fibra nervosa del poeta e la rendeva piú esposta alle reazioni esterne e agli scrupoli interni, proprio i giudizi altrui sulla Liberata, alla luce di nuove e piú rigide norme letterarie e moralistico-religiose, trovavano riscontro nel crescente tormento del Tasso, preso fra la coscienza e l’orgoglio di aver creato un capolavoro e il timore che tale non fosse considerato dai contemporanei e gli stessi scrupoli suoi circa la corrispondenza del poema agli ideali epico-religiosi e letterari cui egli stesso pur con tanta maggior libertà aderiva. Cosí egli ancor prima di pubblicare la Liberata sottopose il poema ai giudizi di letterati e teologi e persino dell’inquisitore di Bologna e poi di quello di Ferrara, ricavando da questa inquieta e confusa consultazione una sorta di ossessivo squilibrio psichico accentuato dal contrastante bisogno di restar fedele alla sua ispirazione e di correggere il poema là dove questo poteva apparire ai suoi consiglieri e censori (e in parte a lui stesso) imperfetto dal punto di vista dell’unità di azione, del decoro dello stile, troppo profano e cosparso di episodi erotici e di un “meraviglioso” non coerente alla direzione edificante e religiosamente ortodossa che egli cercò di consolidare, magari attraverso quella Allegoria della Liberata, scritta nel ’76, e rivolta ad attribuire a tutta l’azione del poema un senso allegorico morale e religioso.

Tale situazione morbosa accentuò in lui un geloso spirito di persecuzione, manifestato in episodi (la lite con un cortigiano, l’aggressione ad un servitore da cui credé di essere stato spiato durante un colloquio con la principessa Lucrezia) che rendono sempre piú difficile la sua posizione alla corte estense e che lo inducono a improvvise fughe a Sorrento, presso la sorella, a Mantova, a Padova, a Venezia, a Pesaro, a Torino. Quando poi nel 1579 egli si decise a rientrare in Ferrara durante le feste per le nozze del duca con Margherita Gonzaga, l’impressione di essere trascurato scatenò in lui una piú vera crisi isterica fino alle ingiurie rivolte contro lo stesso duca. Cosí questi, non a causa di leggendari amori del Tasso con la principessa Eleonora, ma preoccupato soprattutto (nella difficile situazione del suo ducato minacciato di essere assorbito nello stato papale) degli stessi scrupoli religiosi del poeta che potevano accrescere gli interessati sospetti della curia pontificia sulle tendenze ereticali della corte estense, finí per farlo arrestare e rinchiudere come malato pericoloso nell’ospedale di S. Anna dove rimase (prima in una condizione di vera e propria prigionia e di isolamento assoluto, poi in forme piú miti e con permessi di visite di amici) per sette anni resi piú dolorosi dall’alternarsi di periodi piú tranquilli – durante i quali il poeta scrisse rime, Dialoghi e lettere fra le sue piú belle – e periodi di veri e propri incubi e allucinazioni, di depressione profonda e di risentimenti veri accresciuti dalla pubblicazione incompiuta e scorretta del poema ad opera di editori poco scrupolosi e dalla polemica che sul poema si apriva intorno al 1584-1585.

Solo nel 1586, per intercessione del principe Vincenzo Gonzaga, il Tasso poté lasciare S. Anna e Ferrara, trovando affettuosa e onorevole accoglienza a Mantova, e poi nell’87 – ripreso dalla sua inquietudine morbosa – fuggendo a Roma dove – a parte piú brevi periodi trascorsi a Firenze, a Mantova, a Napoli – egli passò la maggior parte dei suoi ultimi anni, precocemente vecchio, malato, deluso e distaccato dallo stesso sogno di gloria: che sembrò consolidarsi nella intenzione di amici potenti di coronarlo poeta nel Campidoglio (come era avvenuto per il Petrarca), ma che poi cadde quando egli ai primi di aprile del 1595 volle farsi accogliere nel convento di S. Onofrio sul Gianicolo, per «cominciar – come egli scrisse – da questo luogo eminente e con la conversazione di questi devoti padri la sua conversazione in cielo». Ivi moriva il 25 dello stesso mese al termine di una vita breve e riscattata, fra tanta infelicità, solo dalla grandezza della poesia in cui aveva trovato, a vario livello nelle varie sue opere, espressione il suo ricco e tormentato mondo interiore, il suo complesso sogno idillico, sensuale, eroico e religioso, artisticamente siglato da una eccezionale esperienza letteraria e da una ispirazione che fa di lui il massimo rappresentante poetico dell’ultimo Cinquecento e – come parve al Leopardi – l’ultimo grande poeta italiano prima della grande nuova poesia classico-romantica rappresentata soprattutto dallo stesso Leopardi.

2. I primi tentativi poetici

Il giovanissimo Tasso iniziò la sua attività di scrittore, ispirato da una schietta vocazione personale e insieme desideroso di intonarsi al gusto e alle aspirazioni del suo tempo, di farsene interprete e di trarne fama e successo, con un abbozzo di poema epico, il primo canto del Gierusalemme (circa un centinaio di ottave), in cui veniva trattata compendiosamente la materia che poi sarà svolta nei primi tre canti della Gerusalemme liberata e che ben corrispondeva all’incontro fra ricordi e avvenimenti autobiografici (i ricordi dei racconti ascoltati da fanciullo sulle imprese dei crociati e l’incursione di pirati turchi sulla costa amalfitana dove aveva corso pericolo di cattura la sorella Cornelia), la generale trepidazione italiana ed europea per il nuovo e crescente incombere dell’aggressività dell’impero ottomano (arrestata solo piú tardi, nel 1571, dalla grande vittoria dei principi cristiani nella battaglia di Lepanto) e la volontà di gareggiare con i grandi poemi epici classici a cui sempre piú guardavano i letterati del tempo nel loro desiderio di una poesia epico-religiosa diversa da quella romanzesca dell’Ariosto.

Si trattava di un tentativo ardito, ma superiore alle forze dell’adolescente che, interrottolo, si volse ad una via per lui piú facile: proprio quella epico-romanzesca rinnovata recentemente dall’Amadigi del padre, Bernardo, e piú adatta alle risorse fantastiche e sentimentali del giovane scrittore, ai suoi entusiasmi avventurosi, alla sua lirica disposizione ad esprimere affetti amorosi e voluttuosi e a tradurre in una poesia favolosa ed elegante quella stessa parte di aspirazioni al narrare dilettevole e aristocratico che pur vivevano – accanto a quelle piú eroiche e solenni – negli ambienti cortigiani da lui frequentati.

Ne nacque un compiuto poema (scritto intorno al 1563), il Rinaldo, che narra la vita avventurosa del celebre paladino e dei suoi amori e, mentre dimostra l’eccezionale e precoce abilità del poeta nella continuità agile e svelta della narrazione, già affronta temi e toni che avranno ben altra vita complessa nella Liberata e che già si alimentano del fondamentale materiale autobiografico (caratteristica essenziale della poesia tassesca), come avviene nello stesso protagonista del poema, tanto poeticamente vicino alle note personali del poeta con il suo prepotente bisogno di gloria, con la sua ingenua fierezza cavalleresca, con il suo bisogno e le sue precoci esperienze di amore languido e voluttuoso fra giovani donne di corte, affascinanti fra malizia, civetteria, alterigia aristocratica.

3. Le rime

Di quella essenziale vocazione lirica e autobiografica e di quelle dirette esperienze amorose iniziate e continuate a lungo specie nella corte estense, fra il 1562 e il 1572, sono piú diretta e libera espressione le numerosissime rime che proseguiranno poi ad accompagnare la stessa composizione della Liberata, come una riserva di notazioni piú frammentarie e diaristiche e con un ampliamento non solo amoroso, ma religioso e di toni piú sofferti e dolorosi, fino alle piú tarde grandi canzoni del periodo della clausura di Sant’Anna; fra tutte altissima l’incompiuta canzone al fiume Metauro, scritta nel ’78 per invocare protezione e asilo da Francesco Della Rovere duca di Urbino, e disposta alla intera rievocazione dolente della propria vita perseguitata e infelice.

Le rime del periodo che corre fra il Rinaldo, l’Aminta e la Liberata sono soprattutto liriche amorose (per Laura Peperara o per Lucrezia Bendidio) svolte nelle forme del sonetto, della canzone, del madrigale; e riprendendo la tradizione della lirica petrarchistica precedente ne vengono alterando e arricchendo le forme piú irrigidite e bembistiche, sia avvalendosi di esperienze nuove come quella di Giovanni Della Casa, sia originalmente portandovi un nuovo incontro fra una sostenuta e maestosa eloquenza e una dolcezza musicale e sentimentale che variamente si attua nei sonetti e nelle canzoni, mentre nella breve e armoniosa linea vibrante degli originalissimi madrigali piú direttamente si espande e si contiene un sentimento amoroso piú morbido, fra inebriato ed elegiaco, fra tenero e melodico, aperto a notazioni luminose e molli di paesaggio, a paragoni concettosi e pur mai aridi e freddi, svolti in flessibili linee musicali, rafforzate da abilissimi e sapienti ricorsi di rime, di assonanze, di echi e di pause suggestive. Con risultati che sono fra i piú alti e incantevoli della lirica del tardo Cinquecento e di cui può essere esempio eccellente il madrigale famoso che qui riportiamo:

Qual rugiada o qual pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto delle stelle?

E perché seminò la bianca luna

di cristalline stelle un puro nembo

a l’erba fresca in grembo?

Perché ne l’aria bruna

s’udian, quasi dolendo, intorno intorno

gir l’aure infino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

4. L’«Aminta»

Mentre l’esercizio complesso ed elaboratissimo delle rime e del loro linguaggio lirico vien preparando aspetti ed elementi della grande poesia della Liberata, piú direttamente il loro lirismo patetico e sensuale, il loro incanto favoloso e suggestivo, la loro malinconica e lieta vibrazione sentimentale si riversano e si costruiscono nella prima intera opera poetica del Tasso: l’Aminta, la favola pastorale che il poeta rapidamente compose, in un momento di eccezionale felicità creativa, nel 1572, per essere rappresentata la prima volta nel luglio del ’73 nell’isoletta di Belvedere, sul Po, dinanzi alla corte estense, senza una scena fissa, ma sullo scenario naturale di quel luogo delizioso e isolato fra le acque.

Proprio pensando al pubblico cortigiano e aristocratico che assisté a quella rappresentazione dovrà anzitutto calcolarsi nell’Aminta la risposta poetica che il Tasso dava con quella favola pastorale di squisita eleganza e di idillica e sognante evasione alle esigenze di una società cortigiana che non è piú quella della Ferrara ariostesca, sostenuta da una pienezza di vita cittadina e statale, e si è ristretta – con la decadenza dello stato estense – ad un ambiente raffinato di pochi spiriti colti e aristocratici, di abitudini eleganti e amabili, di conversazioni dignitose e brillanti che celavano la decadenza generale, le gelosie e i piccoli intrighi di corte, una sensualità avida di godimenti, ma priva della energia passionale della corte ferrarese di primo Cinquecento. Né ciò riguarda solo quella corte, ma un po’ tutta la situazione delle corti di un’Italia lacerata e decaduta sotto la prepotenza del dominio spagnolo, il peso della Controriforma.

E di quella vita cortigiana decaduta e raffinata filtrano nell’Aminta anche riferimenti e allusioni a personaggi storici rappresentati in personaggi della favola pastorale: Licori, con la sua crudele civetteria, rimanda alla Bendidio, in Elpino si può riconoscere il letterato Pigna, in Batto il Guarini, in Mopso qualche critico invidioso del Tasso, come forse lo Speroni. E d’altra parte quell’opera raccoglieva nella sua condizione di idillio lirico-amoroso una delle tendenze proprie dell’animo del Tasso: la tendenza al sogno beato di una vita amorosa e sensuale, libera da ogni costrizione morale (che il poeta esalta nelle lodi alla primitiva età dell’oro in cui il piacere era sovrano e interamente lecito), in cui la forte spinta edonistica che percorre tutto il Rinascimento trova il suo esito supremo colorandosi di piú tenui, ma pur percettibili note di malinconia, ben pertinenti alla intima consapevolezza della sua crescente difficoltà, del suo inevitabile tramonto in un mondo sempre piú regolato da rigide norme moralistiche e religiose. La lieve malinconia sottilmente struggente non rompe però il carattere idillico dell’Aminta che evita ogni possibilità drammatica, cosí come la fragile trama e il carattere labile dei personaggi non possono dar luogo ad una vera e compatta costruzione teatrale.

La trama, a lieto fine, narra la vicenda pastorale-mitologica del pastore Aminta innamorato della bellissima e ritrosa ninfa Silvia, che invano egli salva dal brutale assalto di un satiro e di cui avrà l’amore, coronato da nozze, solo quando, diffusasi la falsa notizia della morte della ninfa sbranata da un lupo, Aminta disperato si lancia da una rupe per uccidersi e allora Silvia sarà vinta dalla compassione per il suo innamorato (che poi esce illeso dal suo tentativo di suicidio) e lascerà cosí libero sfogo al sentimento fino allora represso da lei a causa della sua fiera difesa della propria verginità. Ma, ripeto, questa tenue e gracile trama è tutta pervasa dalla schietta liricità idillica e sensuale del Tasso, che crea intorno ad essa un’atmosfera incantata e sognante, sfumata e melodica, e la riempie di quadri perfetti e patetico-sensuali (quello del bacio che Aminta riesce a carpire a Silvia con un ingenuo inganno, o quello della bella ninfa legata nuda ad un albero dal satiro che si prepara ad abusarne, o quello di Silvia che si specchia nelle acque di un lago e si sorprende attratta e affascinata dalla propria bellezza), di parlate e di cori che piú musicalmente espandono, in un giuoco altissimo di ritmi e di toni ottenuti nell’intreccio di endecasillabi e settenari, il profondo anelito al piacere e all’evasione in un sogno fuori della storia e della realtà.

5. La «Gerusalemme liberata»

E tuttavia questo piccolo capolavoro di perfezione assoluta e luminosa non poteva risolvere certo la piú complessa e maturata personalità poetica del Tasso, che già da tempo – al di là dello stesso lontano anticipo del frammento il Gierusalemme – veniva pensando alla costruzione di un grande poema capace di corrispondere alle tensioni complesse e contrastanti del suo animo e del suo tempo storico.

Al grande poema, steso in un paio d’anni fra ’73 e ’75anno in cui la redazione della Liberata era interamente compiuta –, il Tasso si era venuto lentamente preparando, anche attraverso una meditazione sulla poesia in genere e sul poema eroico in particolare che venne concretata ed esposta nei Discorsi dell’arte poetica, trattazione teorica e critica che prende posto e giustificazione storica in rapporto alla vastissima discussione sui problemi e sulle norme e regole della poesia, soprattutto sollecitata dalla pubblicazione nel 1536 del testo originale della Poetica di Aristotele e sviluppatasi, nel secondo Cinquecento, appunto sulla base essenziale del celebre trattato aristotelico: ma con interpretazioni e intuizioni estetiche assai varie, fra concezioni che battevano prevalentemente sulle qualità di diletto dell’arte, altre che ne sostenevano il fine pedagogico e morale, o altre che tendevano ad equilibrare e coordinare l’elemento edonistico e quello didascalico, o altre infine che insistevano sul dovere essenziale del poeta di esprimere bene qualsiasi argomento si sia proposto di trattare. Mentre tali discussioni contribuivano alla prima moderna impostazione filosofica di un serio problema estetico (tanto al di là della trattatistica medievale e umanistica) indagando sulle differenze fra storia e poesia, fra verità storica e verità poetica, esse puntavano fortemente – in quanto “poetiche” intese a dar leggi e norme all’opera dei nuovi poeti – su di una precettistica spesso assai rigida, volta a proporre i modi particolari con cui si dovevano costruire le opere di diverso “genere” (tragedie, commedie, drammi pastorali, poemi eroici e poemi romanzati ecc. ecc.) e a proporre (specie per la tragedia e per il poema eroico) delle regole basate sulla interpretazione del testo aristotelico, rafforzate dall’autorità esemplare dei classici latini e greci e costituite soprattutto dalle tre famose unità di tempo, di luogo e di azione.

A queste tendenze, cosí diverse dalla piú libera – anche se tutt’altro che inconsapevole e ingenua – creatività poetica altamente rappresentata dal poema ariostesco con la sua immensa varietà e mobilità, il Tasso corrispondeva dunque con i suoi Discorsi sull’arte poetica che insieme intimamente derivavano dai suoi personali problemi di artista e di uomo, e culminavano nella proposta di un poema eroico contraddistinto da un alto fine morale e religioso, dal suo sostanziale fondamento sull’autorità della storia, variata con libera invenzione, ma mai sostanzialmente alterata, e da una essenziale unità arricchita, ma mai spezzata da una ricca e complessa varietà di episodi e situazioni. Come egli dice in una celebre pagina dei Discorsi che ben corrisponde agli ideali e alla realtà della Liberata:

...Giudico che da eccellente poeta... un poema formar si possa: nel quale, quasi in un piccolo mondo, qui si leggano ordinanze di eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi, là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggian sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore, or felici or infelici, or lieti e compassionevoli, ma che nondimento uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l’una riguardi l’altra, l’una a l’altra corrisponda, l’una da l’altra necessariamente o verisimilmente dependa; sí che una sola parte o tolta sia o mutata di sito, il tutto ruini.

Ne derivava – in una forte vicinanza ad ideali simili prevalenti nelle arti figurative già da tempo raccolti sotto il nome di “manierismo”, ma certo sottesi da una generale tendenza dell’epoca fra Rinascimento e Barocco che può essa stessa definirsi come “manieristica” – l’impostazione di un poema che nella sua unità raccogliesse in dinamico equilibrio la molteplicità della complessa e drammatica realtà umana specie nei suoi sentimenti contrastanti (e nei riflessi di questi nella natura e nel paesaggio sempre dal Tasso fortemente sentimentalizzati, posti in relazione con gli stati d’animo suoi e dei suoi personaggi): passione amorosa e sensualità e insieme aspirazione religiosa e morale, generosità eroica e insieme astuzia e malvagità, bisogno di idillio e di evasione e insieme ardente spinta alla gloria e all’intervento nella storia, fiducia in un ordine provvidenziale e divino e insieme profondo e desolato sentimento della miseria umana e delle sue invincibili passioni peccaminose, energica vitalità e infinita coscienza della effimera caducità di ogni cosa mortale. Donde quell’incontro fondamentale (riflesso profondo della situazione critica e drammatica personale e storica del Tasso) fra struggenti elementi sensuali e idillico-elegiaci ed elementi eroici e morali-religiosi spinti fino all’estremo per contrastare e contenere le spinte dell’evasione, dell’idillio, della passione sensuale.

L’impresa poetica e umana del Tasso nella Liberata fu appunto di esprimervi compiutamente tutto se stesso nella ricchezza e complessità dei suoi sentimenti e di mantenere in equilibrio le spinte contrastanti sopraccennate e che non possono essere meccanicamente distinte fra elementi sinceri (quelli piú passionali e idillico-elegiaci) ed elementi solo velleitari e conformistici (quelli eroici e morali-religiosi), perché essi tutti fan parte della realtà della sua vita interiore e del riflesso in essa della sua epoca di crisi. Cosí come errata è la netta distinzione fra la struttura unitaria del poema e della sua vicenda centrale troppo spesso considerata da alcuni critici come schema astratto e impoetico e la varietà degli episodi singoli troppo spesso considerati come la parte solo schiettamente poetica della Liberata.

E altrettanto errato, come poi meglio vedremo, è tagliare nel vivo della poesia del poema distinguendo fra i personaggi ritenuti poi congeniali all’autobiografica realtà del poeta e personaggi necessari solo all’impostazione epico-religiosa della Liberata o duramente separare le note piú struggenti, suggestive, tormentate, tenere dell’elemento idillico-elegiaco e quelle alte e solenni dell’elemento virtuoso ed eroico, o condannare nel suo complesso linguaggio quegli aspetti e modi piú concettosi e metaforici (che tanto piacquero poi ai barocchi) che sono essenziale componente del suo strumento espressivo bisognoso cosí dei modi piú sfumati e intimistici come delle impennate immaginose e inconsuete.

Si potranno certo avvertire nel poema cadute di tono, momenti di minore ispirazione piú surrogata da forme eloquenti e artificiose, ma in definitiva il poema è da accettare nella sua complessa bellezza e intensità, nel suo intreccio chiaroscurale di toni e di modi espressivi fra loro inseparabili e necessari in una poesia cosí dinamica e cosí profondamente nata da contrasti genuini e costitutivi.

6. Il mondo e i personaggi, il linguaggio della «Liberata»

La Gerusalemme liberata, in venti canti, narra – sulla base di antichi cronisti e specie della cronaca di Guglielmo di Tiro – le imprese dell’esercito cristiano, condotto da Goffredo di Buglione (eletto comandante per volere divino e per opera di Pietro l’Eremita), durante l’ultima fase della prima crociata, quando già i guerrieri europei sono in prossimità di Gerusalemme, la città sacra del sepolcro di Cristo, posseduta dai musulmani e governata da Aladino che, nell’imminenza dell’assedio, perseguita i sudditi di religione cristiana attribuendo loro il furto di un’immagine sacra dalla moschea e provocando cosí la sublime e patetica gara altruistica dei cristiani Olindo e Sofronia che si autoaccusano del furto (e Olindo lo fa per salvare la fanciulla da lui segretamente amata) e stanno per esser bruciati sul rogo, quando vengono salvati dall’intervento provvidenziale del guerriero saraceno impietosito del loro caso.

Ma le forze proprie di cui Aladino dispone e l’aiuto a lui portato da alcuni guerrieri saraceni come appunto Clorinda, ed ancora Argante e Solimano, non sembran sufficienti alla difesa della città di fronte alla quale è giunto e ha ingaggiato una prima battaglia l’esercito dei crociati. Cosí i demoni infernali in un loro concilio decidono di ostacolare la vittoria cristiana con le loro arti diaboliche e muovono il mago Idraote ad inviare al campo cristiano la propria nepote, la bellissima Armida, che fingendosi perseguitata e cacciata dal proprio regno e mediante le sue arti e lusinghe femminili ottiene in proprio aiuto dieci campioni, riuscendo poi ad attrarre molti altri guerrieri invaghiti di lei e che la seguono abbandonando il proprio campo e indebolendo cosí – come volevano Idraote e i demoni infernali – la forza dell’esercito crociato.

Né le sventure dei crociati si limitano a questo, ché anche Rinaldo, uno dei guerrieri piú forti e lontano capostipite degli Este – e cosí pretesto per il Tasso di una cortigiana lode dei suoi protettori ferraresi –, viene a contesa con Gernando di Norvegia, lo uccide ed è cosí costretto anche lui ad abbandonare il campo, mentre Tancredi, altro campione cristiano, preso da una invincibile passione per Clorinda, credendo che proprio lei sia la guerriera saracena che è venuta in cerca di lui ferito da Argante (mentre si tratta della timida Erminia che si è travestita con l’armatura di Clorinda per poter uscire da Gerusalemme e avvicinarsi all’uomo di cui segretamente è innamorata e rifugiatasi nell’ospitale soggiorno silvestre di alcuni pastori), corre in cerca della donna fuggita dopo il suo breve ingresso nel campo cristiano e viene a cadere nelle insidie di Armida, mentre giunge ai crociati la notizia della strage dell’esercito danese e del suo eroico condottiero Sveno da parte di Solimano e dei suoi guerrieri.

E ancora, soprattutto per le arti e incitazioni diaboliche della furia Aletto, che ha suscitato un tentativo di ribellione contro Buglione, si scatena contro i crociati l’aggressione notturna del terribile Solimano, seguito da Argante e Clorinda, e lo scontro riuscirebbe irreparabile per i cristiani senza il provvidenziale intervento dell’arcangelo Gabriele e di cinquanta misteriosi cavalieri che mettono in fuga gli assalitori e che si rivelano poi per i guerrieri che avevano seguito Armida e che erano stati liberati dal castello incantato ad opera di Rinaldo, la cui sopravvivenza è cosí lietamente confermata di contro alla certezza della sua morte, precedentemente suggerita dalla macabra apparizione del suo fantasma ad opera delle forze diaboliche.

Cosí la speranza rinasce nell’animo dei crociati, Pietro l’Eremita profetizza il ritorno di Rinaldo e la sua decisiva presenza nella conquista di Gerusalemme, e – dopo una processione propiziatoria – Goffredo, incrollabile nel suo dovere e nella sua fiducia, decide di attaccare in pieno giorno la città assediata con una battaglia imponente e terribile agevolata per i cristiani dall’uso di una torre mobile, ma interrotta dal sopraggiungere del buio notturno.

Proprio nella notte Argante e Clorinda decidono di incendiare e distruggere la grande torre mobile di legno, strumento decisivo nell’assalto alle mura di Gerusalemme, e riescono nel loro disegno. Senonché l’allarme e la reazione dei crociati li obbliga a cercare pronto rifugio nella città: ciò che riesce ad Argante, ma non riesce a Clorinda che si trova impegnata in un feroce duello con il suo innamorato Tancredi, ignaro della sua identità, dolorosamente rivelata solo quando la bella guerriera è stata da lui ferita a morte e da lui chiederà il battesimo in un estremo ritorno alla fede cristiana in cui segretamente l’aveva fatta inizialmente educare la madre.

Poiché ai crociati è indispensabile costruire nuove torri di assedio, il mago Ismeno incanta la selva di Saron, popolandola di forze diaboliche che atterriscono e allontanano i carpentieri cristiani intenti ad abbattere alberi necessari per la costruzione delle torri, mentre una terribile siccità viene a devastare la campagna, a rendere impossibile la vita ai guerrieri cristiani. Solo le preghiere del pio Goffredo indurranno il Cielo a provocare una benefica pioggia ristoratrice che sembra segnare la svolta del poema verso il suo esito felice ancora lontano e difficile.

Una visione celeste induce infatti Goffredo a perdonare Rinaldo per la sua uccisione di Gernando e ad inviare due guerrieri, Carlo e Ubaldo, a ricercare il campione da cui dipenderà in gran parte la vittoria sulle forze diaboliche che ostacolano principalmente l’azione dell’esercito cristiano.

Si apre cosí una parte del poema (canti XIV, XV, XVI) particolarmente avventurosa, romanzesca e insieme amorosa e voluttuosa. Prima la narrazione del viaggio dei due emissari di Goffredo in terre lontane e misteriose, in luoghi magici e sotterranei, com’è appunto la dimora del saggio mago di Ascalona che rivelerà a quelli come Rinaldo sia prigioniero, ormai volontario, di Armida, di lui perdutamente innamorata, in una delle isole Fortunate in mezzo all’Oceano, dove Carlo e Ubaldo si recheranno – con un lungo e fantastico viaggio che profetizza le imprese audaci di Colombo e Magellano – scortati dalla stessa Fortuna e provvisti di talismani: una verga d’oro, un foglio e uno scudo incantati. Con quei talismani i due cavalieri vincono la resistenza di terribili fiere e la lusinga di un ambiente incantevole e voluttuoso, pieno di mense sontuose e di fanciulle leggiadre.

Poi l’attenzione del poeta si sposta direttamente sul torbido e affascinato idillio voluttuoso e sensuale degli amori di Armida e Rinaldo in un giardino incantato, dove i due guerrieri riescono a parlare con l’eroe reso effeminato e imbelle dalle arti di Armida e a farlo ravvedere e decidere di rompere il suo vergognoso legame amoroso.

Rinaldo parte con i suoi due compagni malgrado le disperate e sincere invocazioni della maga, che, vista l’inanità di quelle, tramuta l’amore in un odio feroce e in un proposito di vendetta che la induce a recarsi presso il re di Egitto e ad offrirsi in premio a chi ucciderà Rinaldo.

Il re di Egitto si dispone cosí ad entrare in guerra con i crociati, mentre Rinaldo ritorna in Palestina, ascolta gli incitamenti alla virtú e al dovere del mago di Ascalona, riceve il perdono di Goffredo e l’assoluzione di Pietro l’Eremita, e compie un rito di definitiva perfezione raccogliendosi in preghiera sul monte Oliveto. Cosí egli potrà penetrare nella selva incantata, vincere ogni magico incanto diabolico e permettere ai carpentieri cristiani di tagliare alberi e di costruire tre grandi torri di assalto.

Ha inizio cosí (dalla fine del canto XVIII) la battaglia decisiva del poema durante la quale Tancredi uccide in duello Argante, rimanendo però lui stesso ferito in un luogo solitario, dove lo ritrova e lo cura la delicata e innamorata Erminia, passata intanto fra varie peripezie, ma decisa a favorire la causa del suo amato e della parte cristiana, come essa ha fatto già rivelando a Vafrino, inviato nel campo egiziano a spiare piani e forze di quell’esercito, una congiura intesa a sopprimere Goffredo.

Questi può cosí sventarla e riprendere e completare l’assalto definitivo alle diroccate mura di Gerusalemme: ciò che avviene nell’ultimo e grandioso canto, nel quale cadono uccisi e catturati successivamente i maggiori campioni maomettani, da Aladino a Emireno, al grande Solimano eroicamente morto sotto i colpi di Rinaldo, mentre Armida cede di nuovo alla passione per Rinaldo e gli si offre come ancella devota. Al termine della battaglia Goffredo entra vittorioso nel tempio di Gerusalemme e vi appende la spada e prega sul Santo Sepolcro finalmente liberato e reso alla fede cristiana.

Come può vedersi anche da questo rapido riassunto il poema del Tasso è contenuto in un disegno grandioso e unitario di solenne e grave epicità guerresca e religiosa, ma insieme coerentemente e organicamente arricchito dalla sua articolazione nei singoli episodi che – sulla base dell’incontro fondamentale degli elementi eroici, morali e idillico-elegiaci dell’animo poetico tassesco – realizzano una vasta gamma di toni ora delicati e morbidi (si pensi all’episodio della fuga di Erminia fra i pastori), ora apertamente voluttuosi (si pensi agli amori di Armida e Rinaldo), ora impastati di sottile erotismo e di eroica, intrepida virtú (l’episodio di Olindo e Sofronia), ora fantastici e avventurosi (il viaggio di Carlo e Ubaldo, pervaso dall’ansia e dall’orgoglio delle nuove scoperte geografiche), ora cupi e terribili (il concilio dei demoni), ora bellicosi ed epicamente squillanti (i duelli singoli e le battaglie generali, fra cui bellissima quella del canto undicesimo), ora gravi e musicalmente intonati ad un’alta purezza spirituale (la processione sempre nel canto undicesimo o la solitaria preghiera di Rinaldo sul monte Oliveto nella candida luce del primo mattino), ora macabri e magici (gli incanti e le metamorfosi miracolose e velocissime delle false immagini che devono atterrire o attrarre Rinaldo impedendogli di dare il primo colpo agli alberi della selva incantata), ora teneri e limpidi (la trepida cura che Erminia si prende del ferito e amato Tancredi), ora solenni e drammatici fino all’estremo iperbolico di figurazioni eroiche e sublimi (la figura di Sveno che, ucciso, ancora si erge in piedi fra un cumulo di cadaveri nemici e volge il suo viso verso l’alto e il cielo), ora assommanti gravità, eroismo, pietà religiosa, tenerezza amorosa, sentimento di frustrazione e di crudeltà degli inganni della sorte come nel grande esemplare episodio della morte di Clorinda.

Né si dimentichi, a capire il fondo piú amaro e desolato dell’animo drammatico del Tasso, la grande figurazione di Solimano nella sua meditazione, di consapevole ed eroico sconfitto e destinato alla prossima morte, sulla tragica sorte degli uomini, quando dall’alto della rocca interna di Gerusalemme egli contempla, con sguardo lucido e profondo, la strage che lo circonda e in essa riconosce «l’aspra tragedia dello stato umano».

Ché, a ben guardare, pur nell’aspirazione contrastante all’idillio sensuale e all’evasione, e alla purezza spirituale e all’esercizio di alti doveri ed impegni eroici, virtuosi, religiosi, al fondo della poesia della Liberata vibra una profonda malinconia, il riflesso profondo di una crisi storica ed esistenziale, il sentimento doloroso del nulla, l’amaro sapore della morte e dello scacco, dell’inganno della vita tradotto anche nel sintomatico giuoco crudele di amori non corrisposti o incrociati fra loro (Erminia ama Tancredi innamorato invece di Clorinda) o delusi tragicamente per opera inconsapevole dello stesso amante (Tancredi che uccide inconsapevole l’amata Clorinda).

Tutto l’animo del poeta si traduce nel poema e si realizza parzialmente in tanti diversi personaggi analizzati e fortemente individuati con un gusto psicologico e autobiografico tanto diverso dai modi con cui l’Ariosto dominava e muoveva i suoi personaggi servendosene come labili e cangianti elementi del suo ritmo poetico, del suo mondo fantastico incessantemente mutevole e smisuratamente libero ed aperto, in cui il suo grande animo alacre e sereno piú direttamente si traduceva.

I personaggi del Tasso hanno invece uno spicco tanto maggiore e sicuro e insieme una psicologia piú complicata e tormentata e intima. Né si tratta solo di personaggi tradizionalmente considerati come piú congeniali alle autobiografiche componenti dell’animo del Tasso (Rinaldo, Tancredi, Erminia), ché anche quelli che sono tradizionalmente apparsi piú freddi, rigidi, necessari nell’azione del poema, ma non necessitati dalle intime ragioni dell’animo del poeta, si rivelano ad un esame piú approfondito dotati di una loro intima poeticità e di un raccordo vero con altri elementi sinceri dell’autobiografia del Tasso. Tale è infatti il caso estremo – e tante volte accusato di essere una semplice figurina modellata sul “pio Enea” virgiliano – del pio Goffredo che nella sua perfezione virtuosa e religiosa, nel suo incontaminato esercizio del dovere (che poi lo costringe a complesse discussioni e conflitti con se stesso tormentosi e ardui), ben riflette un elemento sincero del Tasso: quell’aspirazione ad una forza e perfezione morale che egli ben viveva nella complessa rete di sentimenti, mal realizzati nella sua vita pratica, ma non perciò meno prementi e schietti nella sua vita interiore.

Né i personaggi, pur assorbendo in sé tanto della materia sentimentale del Tasso, e cosí presentandosi con tanta forza e rilievo nel poema, vivono del tutto isolati in uno scenario monotono e in un’azione generale scialba e astratta. Già si è detto della varietà ricca e complessa compresa nell’unità del poema e già si è accennato alla vitalità poetica del paesaggio e delle scene intimamente vibranti dei riflessi degli stati d’animo dei personaggi e della generale pressione lirica dell’animo tassesco. Bastino ancora in proposito poche precisazioni, anche se il tema merita un ampio svolgimento.

Il paesaggio della Liberata è eminentemente lirico, vibrante, bagnato di trepidazioni ed emozioni sentimentali, sottolineato da silenzi o da clangori cupi o squillanti, venato e percorso da trasalimenti misteriosi e suggestivi, corroso da turbamenti e da squallide depressioni o sostenuto e animato da movimenti grandiosi, terribili: simbolo vivo, in generale, di una visione vitale tesa fra gusto della vitalità feconda, e sin sontuosa ed esuberante, e malinconico e desolato sentimento della morte e dello squallore mondano. Di nuovo troviamo in esso l’incanto di idillio, di elegia, di eroismo e solennità e, al fondo, il turbamento e l’angoscia di un grande animo che nell’equilibrio della grande poesia raccolse insieme il contrasto e la crisi profonda del suo animo e della sua epoca, traendone, in profondo, note arcane e sfumate coerenti ad una visione della vita che è sembrata lontano precorrimento del romanticismo, anche se poi dovrà ben chiarirsi l’estrema relatività e approssimatezza di tali avvicinamenti piú psicologici che veramente storici.

Comunque nei notturni misteriosi, nei chiaroscuri di luce e di tenebre, nelle morbide e tenere bellezze idilliche di paesaggi come quello pastorale dell’episodio della fuga di Erminia, nelle sensuali delizie del giardino di Armida, nella scagliosa e arida crosta corrosa della campagna disseccata dalla siccità, nelle sontuose e manieristiche descrizioni di palazzi magici, come quello del mago di Ascalona, la poesia del Tasso esprime la sua complessa suggestione visivo-sentimentale, accompagnata da quella di una musicalità varia, a volte molle, rallentata, struggente («un non so che di flebile e soave»), a volte fragorosa e potente, accresciuta dalle onomatopee e da infiniti espedienti di estrema sapienza, a volte portata fino alla voluta e lacerata dissonanza («il rauco suon della tartarea tromba»), a volte, e piú profondamente, tesa a sottolineare il senso di squallore, di mistero, di indefinita e infinita solitudine («sotto il silenzio dei secreti orrori») o di desolato sentimento della caducità delle piú superbe costruzioni umane («muoiono le città, muoiono i regni / copre i fasti e le pompe arena ed erba»).

Per tali complessi effetti poetici il Tasso si serví nuovamente – secondo una tradizione dei poemi cavallereschi italiani – dell’ottava, ma profondamente rinnovandone la costruzione e il ritmo: che non hanno piú l’armonica e stupenda conclusione, il giro largo e raccolto nella clausola finale dei due endecasillabi a rima baciata tipici dell’ottava ariostesca e preferiscono una scansione piú contrastata e difficile, un’inarcata tensione che punta, nel finale, a effetti piú inattesi e scattanti («non scese no, precipitò di sella») e persin concettosi, assecondando la generale complessità del linguaggio, lontano dall’affabilità limpida e profonda di quello ariostesco e volto invece al magnifico, al sontuoso, all’energico, al solenne o – nel fondamentale incontro di epicità e idillico elegiaco e sensuale-sentimentale – alla delicatezza preziosa e pateticamente struggente, alla vibrazione di emozioni segrete e misteriose, languide e tenerissime.

Le piú ardue figure retoriche (metafora, iperbole ecc. ecc.) sono usate dal Tasso con estrema ricchezza e sapienza e se perciò egli parve ai secentisti addirittura il precursore del Marino (o, come disse un grande poeta spagnolo, l’alba del sole mariniano!) e viceversa fu fortemente criticato da uomini della tradizione rinascimentale piú armonica (fra essi Galileo grande ammiratore dell’Ariosto e severo critico del Tasso), la sostanza della sua poesia e la sua stessa situazione storica dà ben diverso valore alle sue arditezze stilistiche rispetto a quello che esse avranno di artificioso e spesso di vuoto nel vero barocco e confermano la sua appartenenza ad una precisa zona dell’ultimo Cinquecento che non è piú il Rinascimento e non è ancora il Barocco.

7. Lettere e dialoghi

Del resto a confermare la posizione storica e personale del Tasso e la sostanziosa base intellettuale e morale della sua poesia, male assimilabile a quella che sarà dominante nel Seicento italiano priva di una forte spinta morale e di una trama intellettuale adeguata, ben possono servire sia le numerosissime e spesso bellissime lettere che sono insieme documento dell’assillante preoccupazione artistica del Tasso (sí che esse sono scritte sempre con grande cura formale) e della ricchezza e genuinità dei suoi interessi culturali, filosofici e critici, nonché della sua ardente e tormentata spiritualità.

Certo il Tasso non fu un filosofo e un pensatore originale, ma, nella sua vasta consuetudine con i problemi posti dall’aristotelismo e dal platonismo, egli ebbe pure preoccupazioni e disposizioni meditative e riflessive tutt’altro che trascurabili. Ed esse si esprimono particolarmente in quei ventiquattro Dialoghi, scritti in gran parte nella concentrazione dolorosa e forzata della clausura di Sant’Anna, e che, trattando argomenti di vario peso e impegno (dai temi del costume cortigiano e dei doveri dell’uomo di corte a quelli della trattatistica sull’amore e sul bello, a quelli della problematica critica sulla poesia e sull’estetica, a quelli della diplomazia e della politica, ad altri piú profondamente morali), fondono, con varia ma sempre forte efficacia di prosa, la preoccupazione artistica del Tasso che ne volle fare vere e proprie prove di alta letteratura e la sua vocazione a riflettere sui problemi del tempo e dell’uomo in generale, dimostrandovi un’indubbia acutezza e sicurezza logica e dialettica, rafforzata da un’insopprimibile ansia di verità e di chiarimento della sua stessa tormentosa esperienza vitale e biografica. Basti pensare in quest’ultima direzione alle pagine del Messaggero dedicate all’analisi e alla definizione della malinconia (uno degli spunti per il grande dialogo del Tasso e del suo genio familiare in cui il Leopardi, ammiratore del grande poeta anche per la sua infelicità e per le sue intuizioni pessimistiche), nel Padre di famiglia alle celebri pagine che rievocano l’ospitalità umana e nobile offerta da alcuni signori al poeta irrequietamente errabondo e incalzato dai suoi tormenti e dallo spirito di persecuzione ma che non vanno disgiunte dalle acute riflessioni che in quel dialogo si svolgono intorno alle relazioni familiari, alla saggia amministrazione della casa, e ben riportano da considerazioni morali sulla vita quotidiana a piú generali motivi di visione della vita e della natura umana.

8. L’ultimo Tasso

La tremenda esperienza della reclusione nell’ospedale di Sant’Anna e il crescente e irrealizzabile bisogno – tra fughe e rifugi improvvisamente abbandonati – di una interiore pacificazione nell’abbandono alla fede religiosa e di un accordo sicuro con le prospettive religiose, morali e letterarie del tempo (tra spinta conformistica e piú sincere e personali esigenze di ravvedimento, penitenza, perdono divino rispetto ai suoi presunti errori e peccati giovanili) si ripercossero fortemente nell’animo e nella poesia del Tasso fiaccandone la piú libera alacrità sentimentale e fantastica e rompendo quell’equilibrio teso e difficile che nella Liberata aveva sostenuto e contenuto i suoi contrasti spirituali, personali e storici indirizzandoli a cosí alta e dinamica realtà poetica.

Non per ciò il Tasso si chiuse nell’inerzia e nel silenzio, ché anzi negli anni posteriori alla liberazione da Sant’Anna la sua attività letteraria continua incessante e larghissima come in una irrequieta volontà di supplire con la sua stessa abbondanza e varietà alla desolazione interiore, alla diminuita fiducia in se stesso, alla consapevolezza di un declino inevitabile delle sue forze piú vive.

Né può dirsi semplicemente che ormai il Tasso sopravviveva a se stesso in quanto poeta perché anche nelle ultime e piú stanche sue opere non mancano densi accenti poetici, vibrazioni laceranti e affascinanti, echi profondi del suo non cessato tormento interiore e del suo drammatico pessimismo, quanto piú egli sfugge all’aspetto piú programmaticamente conformistico della sua crescente svolta religiosa e morale e risponde piú autenticamente alle ragioni piú intime e personali di questa.

Cosí piú duro non potrà non essere il giudizio – proprio perché frutto di una volontà piú astratta e conformistica – su quella Gerusalemme conquistata in cui il Tasso intese rivedere e correggere il capolavoro della Liberata per renderlo meglio conforme alle critiche letterarie e moralistiche che quella aveva suscitato e che ora il Tasso accettava cercando di ricostruire il suo poema in forme piú regolari e classicamente epiche, sopprimendo interi episodi ritenuti licenziosi o diversivi (quelli di Olindo e Sofronia o di Erminia fra i pastori), privando il suo linguaggio della sua piú nervosa vibrazione e portandolo verso una magnificenza esteriore e monotona.

Ma se si passa all’altra opera cui il Tasso attese intorno all’88, la tragedia Torrismondo, il proposito classicistico di creare una tragedia secondo le regole aristoteliche, esemplata sull’Edipo re di Sofocle, e la stessa volontà moralistica vengono in realtà sopraffatte da un’inquieta e torbida onda di passioni represse e invincibili, spinte fin all’orrore dell’amore incestuoso dei protagonisti, che resine consapevoli e tormentati non sanno rinunciarci se non attraverso il gesto disperato del suicidio.

L’opera non riesce, è vero, a raggiungere una sua unità e sicurezza strutturale e scenica, ma il tragico conflitto fra passioni e moralità ha pure una sua forza innegabile che si espande in un’atmosfera di incubo e in un paesaggio nordico desolato e cupamente malinconico e che, nel rilievo della estrema fragilità umana, della sua prepotente disposizione al peccato e alla violazione delle leggi morali, si raccoglie in note liriche molto alte nei cori che commentano con infinita amarezza la vicenda e il suo significato umano.

Si pensi soprattutto al finale del coro dell’atto IV con il suo disperato ritorno elegiaco iniziale e terminale entro cui si svolge, in una spirale desolata e totale, il lamento supremo sulla sorte dell’uomo sulla terra:

Ahi lacrime, ahi dolore!

Passa la vita, si dilegua e fugge

come gel che si strugge.

Ogni altezza s’inchina e sparge a terra

ogni fermo sostegno;

ogni possente regno

in pace cade alfin, se crebbe in guerra;

e, come il raggio il verno, imbruna e muore

gloria d’altrui splendore.

E come alpestro e rapido torrente,

come acceso baleno

in notturno sereno,

come aura e fumo e come stral repente

volan le nostre fame, ed ogni onore

sembra languido fiore.

Che piú si spera, o che s’attende omai?

Dopo trionfo e palma

sol qui restano all’alma

lutto e lamenti e lagrimosi lai.

Che piú giova amicizia e giova amore?

Ahi lacrime, ahi dolore!

Queste note di profondo pessimismo risuonano piú sporadicamente e debolmente nei piú tardi componimenti poetici tutti raccolti intorno ad una piú univoca prospettiva religiosa di cui non può certo negarsi la sincerità sofferta entro uno stato d’animo di profonda prostrazione e di dolente e ossessivo riconoscimento dei propri errori e peccati, di aspirazione al “porto dell’indulgenza” divina, ma che sarebbe assurdo voler presentare come poeticamente e intellettualmente vigorosa e feconda.

In effetti in opere come il Monte Oliveto, Le lagrime di Maria Vergine, Le lagrime di Cristo, le Sette giornate del mondo creato, l’animo e la fantasia del grande poeta rivelano il loro sicuro declino e invano egli tenta nell’ultima opera ricordata un grandioso impianto di poema religioso modellato sul racconto biblico della creazione del mondo riempiendolo di digressioni descrittive, di erudizione scientifica e di allegorie morali e teologiche.

La costruzione di simili opere rimane inerte e slegata, il linguaggio risulta opaco e monotono, anche se decoroso e sapiente, e, come dicevo, solo sparsamente – specie nel Mondo creato – affiorano frammenti piú suggestivi per il loro tono di lamento funebre sulla sorte personale del poeta e sulla sorte degli uomini che possono al massimo, in tanto squallore, aspirare – come nella parlata della personificazione del mondo in un vegliardo – alla dissoluzione finale di tutte le cose, al “riposo eterno” dei cieli e della terra annullati nella pace del loro riassorbimento in Dio.

Cosí una grande poesia, che aveva potentemente interpretato gli ultimi luminosi bagliori del Rinascimento e le aspirazioni complesse di un’epoca di crisi, rivela nella sua fase terminale lo scacco e la sconfitta di quell’epoca di passaggio fra Rinascimento e Barocco.

9. La fine del Cinquecento e l’opera di Giordano Bruno

La fine del secolo è poi suggellata da un avvenimento tragico estremamente significativo nel clima crescente della oppressione, da parte della Controriforma, di ogni spirito di libertà spirituale e culturale. Il 17 febbraio del 1600 a Roma in Campo de’ Fiori moriva arso vivo come eretico Giordano Bruno: con quel rogo nefando la Chiesa romana tentava di spegnere lo spirito stesso che aveva animato la grande cultura rinascimentale e che, complicata con nuovi elementi di pensiero aperto ai piú arditi svolgimenti moderni, si preparava, proprio nella grande opera del Bruno, a investire di sé il nuovo secolo, come – malgrado quel rogo e la pesante tutela oppressiva e autoritaria della gerarchia ecclesiastica e del dominio spagnolo – sarebbe pure avvenuto nella grande linea del nuovo pensiero sperimentale galileiano. Il Bruno (Filippo, ma Giordano per il nome preso quando a quindici anni entrò nell’ordine domenicano) era nato a Nola nel 1548 e presto aveva rivelato le tendenze ribelli ed ereticali del suo spirito libero e del suo pensiero antiaristotelico e avverso alla teologia scolastica.

Fu costretto cosí ad abbandonare l’Italia, riparando prima nella protestante Ginevra, poi, impaziente della stessa ortodossia calvinistica, a Parigi, a Londra, in Germania e a Praga (dove aderí al luteranesimo senza poter trovare anche in quella religione la piena libertà intellettuale cui aspirava), per poi rientrare in Italia, a Venezia, dove fu arrestato dall’Inquisizione veneta e consegnato a quella romana che gli intentò un lunghissimo processo durato otto anni e – dopo iniziali incertezze e la sua finale intransigente difesa delle proprie idee – lo condannò al rogo.

Il Bruno – come dimostra la sua tragica e inquieta vicenda vitale e la sua scontentezza di ogni formula chiusa e dogmatica e per ogni chiesa ufficiale e autoritaria – fu anzitutto un grande spirito libero e un grande pensatore che dall’eredità del naturalismo italiano del Telesio e del pensiero astronomico e scientifico del Copernico e dall’urto con l’aristotelismo trasse insieme una complessa e originale visione del mondo come unità di materia e forma, o, meglio, di materia infinitamente creatrice di forme sempre rinnovantisi (come l’infinità dei mondi nell’immenso universo riflette in sé l’infinità di Dio) e una profonda ansia di verità e di libertà sottratta ad ogni autorità di testi, di dogmi, di istituzioni, avverso ad ogni semplice trasmissione di idee tradizionali e ad ogni ragionamento astratto dalla concreta esperienza.

Ugualmente in letteratura egli combatte il petrarchismo e ogni produzione artistica vacua e ornamentale e cosí nella espressione del suo pensiero il Bruno, dotato di potente immaginazione, arditamente e originalmente mescolò idee e immagini, dando insieme un alto esempio di opere originalmente e contemporaneamente filosofiche-poetiche e un piú forte appoggio concreto alle tendenze varie volte da noi osservate nel corso del secolo, come ispirate ad un rifiuto della bella ed elegante scrittura in vista di una letteratura tutta densa di cose, di idee, di immagini nuove, fecondate da originalità schietta di pensiero e di fantasia.

Tale fusione delle sue prospettive polemiche in sede filosofica e in sede letteraria e delle sue native qualità di prosatore e di scrittore si realizza – a vario livello di pieno risultato – nelle sue numerose opere italiane (piú deboli e didascalici sono alcuni suoi poemi latini): i dialoghi De la causa, principio e uno, fondamentale per l’esposizione piú completa del suo pensiero, i dialoghi piú accesamente polemici e appassionatamente entusiastici come la Cena de le ceneri (che in un colorito sfondo ambientale londinese e in una viva rappresentazione di personaggi brillantemente satireggiati sostiene la visione bruniana del mondo sulla base della verità del sistema eliocentrico copernicano), o il De l’infinito universo e mondi che grandiosamente rompe di nuovo l’angusto sistema tolemaico-aristotelico ed esalta l’infinità dei mondi, o lo Spaccio della bestia trionfante in cui, attraverso il mito complicato e suggestivo della liberazione del cielo dalle costellazioni che lo deturpano, si rappresenta la riforma dell’anima umana dai vizi (la “bestia” che opprime in quella la sua parte divina), o gli Eroici furori in cui il Bruno, mentre attacca violentemente il petrarchismo e la poesia frivola e snervata, elabora la nozione di un “furore eroico” che innalza l’uomo di alto intelletto al possesso superiore della virtú di origine divina celata nel suo animo.

In questi scritti la foga filosofica-artistica del Bruno si dispiega tumultuosa e ardita, ricca di violenti elementi satirici e parodistici come di elementi entusiastici e appassionati, in un linguaggio esuberante e pur sostenuto da un forte tessuto di pensiero e di moralità, spregiudicatamente pronto alla metafora immaginosa e alla battuta realistica, popolare, dialettale, ormai molto lontano dalla compostezza armonica ed elegante della prosa e del linguaggio del Rinascimento idealizzante e aristocratico e apparentemente prossimo alle forme barocche, ma in realtà da esse diverso per la costante pressione interna del pensiero e per una pregnanza fantastica che ha pur sempre saldi rapporti con la forza libera ed energica del Cinquecento e ben si diversifica dal lusso immaginoso, dalla disorganicità fondamentale, dalla scarsità di vigore intellettuale e morale delle tendenze barocche del Seicento italiano.